Il neurologo Chiò: “Il Covid ha peggiorato tutte le patologie. Serve finanziare la Sanità e investire bene”

Il direttore di Neurologia delle Molinette di Torino è l'unico scienziato italiano nella «Hall of fame» di chi cura la Sla. Ha vinto riconoscimento mondiale «Forbes Norris Award 2021»

Il professor Adriano Chiò

«Quando mi è arrivata la mail che mi segnalava la premiazione erano le 8 del mattino, stavo parlando con mia moglie e, all’improvviso, ci siamo interrotti. Ammetto che sto realizzando solo ora di aver vinto questo premio che rappresenta un riconoscimento assoluto nel nostro mondo. Leggo l’elenco di chi lo ha ricevuto prima di me, e dico: “ma ci sono anche io?”». In realtà, dopo quasi 40 anni di attività e importanti traguardi raggiunti, il professor Adriano Chiò non dovrebbe essere stupito del prestigioso «Forbes Norris Award 2021» che gli è stato assegnato dall’International Alliance delle ALS/MND Associations. Ma, chi lo conosce, sa che oltre alla sua professionalità, a fare la differenza sono il suo lato umano e la sua semplicità.

A lui è andato il massimo riconoscimento mondiale nel campo clinico della Sla che premia la combinazione di due maggiori qualità: la cura e l’assistenza dei pazienti e il progresso delle conoscenze scientifiche. Eppure ne parla come un “dono” inaspettato, con l’entusiasmo di un’apprendista, mentre oggi è direttore della Neurologia 1 universitaria e del Centro Regionale Esperto per la Sclerosi Laterale Amiotrofica dell'ospedale Molinette della Città della Salute di Torino e dell’Università di Torino. E ci tiene a sottolineare che «questo premio rappresenta l’apice di un lavoro di squadra. Lo condivido con tutto il mio gruppo. Senza di loro non farei nulla».

Sposato, un figlio di 27 anni ingegnere, amante degli animali (ha una gatta di nome Lilla), ha una passione per i francobolli e per la storia. È l’unico italiano ad essere entrato nella “Hall of fame” degli scienziati che si occupano di Sla, che in Italia conta 4.500 malati, 1.800 i nuovi casi ogni anno. Una malattia che colpisce maggiormente gli uomini, con un picco nella fascia d’età tra i 60 e i 75 anni.

Un premio che onora la memoria del Dr. Norris e la sua dedizione costante ai pazienti e alle loro famiglie.
«Viene dato da una ventina di anni in onore di Forbes Norris, il neurologo che ha creato il primo centro Sla nel mondo, a San Francisco. Tra l’altro ho avuto la fortuna di conoscere sia lui che la moglie, che faceva l’infermiera. Da lui parte quello che noi chiamiamo il “movimento dei centri Sla”, cioè si inizia a lavorare e seguire i pazienti con questa patologia. Il nostro centro delle Molinette di Torino è, infatti, nato come ambulatorio. Era un tentativo di emulare quanto loro già facevano. Noi siamo stati i primi a farlo in un ospedale pubblico».
Cosa sappiamo di questa malattia oggi?
«Conosciamo bene delle forme di origine genetica, che sono la quota della malattia, quelle sicure e chiare sono il 10%. Abbiamo dei dati che confermano l’influenza di tanti, piccoli geni, quello che si chiama fenomeni multi fattoriali genetici, e siamo certi che ci siano influenze ambientali. Questa è una delle aree di studio su cui lavoriamo moltissimo. Adesso abbiamo anche un progetto dell’Unione Europea su questo fronte».
Su cosa bisogna puntare?
«La battaglia è capire come queste predisposizioni genetiche si combinano con i fattori ambientali. Una delle cose che si può citare è che c’è certamente un aumento di frequenza di Sla fra gli atleti, ad esempio. I calciatori sono la punta dell’iceberg. Ma questo non può essere dovuto all’attività sportiva in sé come tossica, perché non lo è. Quanto, invece, a un’interazione tra un assetto genetico del soggetto e l’attività sportiva. Su questo stiamo facendo ricerche a livello europeo».
Dal punto di vista delle cure e dei farmaci ci sono delle novità importanti?
«Abbiamo da poco avuto il risultato finale di un grosso studio internazionale, a cui abbiamo partecipato anche noi (unico centro italiano, ndr), su una terapia genica per una delle cause più note che è la Sod1 (superossido dismutasi 1). È stato identificato un farmaco che ha un effetto buono sulla malattia, un’arma che si sta aggiungendo al nostro armamentario terapeutico. Poi ci sono tutta un’altra serie di studi di farmaci sui meccanismi della malattia perché la Sla ha almeno sette o otto meccanismi. Poi si sta lavorando a uno studio, che ha completato la fase 2, sulla combinazione di farmaci che potrebbe essere un’altra soluzione per le forme non genetiche della malattia. Adesso sta arrivando in Italia in fase 3».
Professore il suo team da quante persone è composto?
«Una cinquantina di persone considerando la ricerca clinica e quella di base. Per fare un esempio nel team ci sono i nostri collaboratori pneumologi, che non sono parte del centro Sla in senso stretto, ma di fatto lo sono perché senza di loro tutta una serie di lavori sui pazienti e di ricerca non si potrebbero fare. Poi ci sono dietologi, biologi. All’interno del centro abbiamo tante figure come neurologi, virologi, neuropsicologhe. In qualche modo stipendiati direttamente da me, se vogliamo dire in questo modo».
La ricerca è fondamentale. Cosa serve affinché si riesca a portarla avanti?
«I soldi, ovvio. Servono fondi. Attualmente, solo di stipendi di personale che lavora con me, pago sui 250/300 mila euro all’anno. Soldi che devono entrare, altrimenti devo lasciare a casa delle persone. Eppure ho la fortuna di avere molti strutturati che sono pagati dall’ospedale o dall’università. Al momento ho due ricercatori che sto pagando grazie a un progetto europeo e un altro nazionale del Ministero dell’Università».
Lei collabora con le migliori università e centri di ricerca europei e americani ma si trova a dover fare i conti con la cronica carenza di fondi.
«Alla fine dell’anno fai i conti e ti chiedi: “quanto è entrato nelle casse e quanto è uscito?”. Poi cerchi di capire come poter ottenere un finanziamento di una Borsa o di un assegno. La fortuna, finora, è stata che ogni tanto c’è qualche Fondazione che ci appoggia e aiuta. Poi passi il tempo a studiare bandi di progetti competitivi. A volte si vince e altre no. Ma è giusto così, e lo considero anche un gioco bello perché ti obbliga a rimanere sempre sul pezzo».
Ha cominciato con la tesi sulla Sla e non ha mai smesso di studiare, indagare. Cosa l’ha spinta?
«Il mio grande maestro, il professor Davide Schiffer. Fu lui ad assegnarmi la tesi su questo argomento. Ne sapevo poco o nulla, ero al quinto anno e neurologia si studiava al sesto anno. Sa, la vita è fatta di sliding doors: qualche volta ti trovi per caso in una situazione inizialmente strana che poi si rivela vincente, ma non lo sai prima. Sono stato assunto come assistente nel 1988 dalle Molinette di Torino e ho chiesto al mio allora capo di aprire un laboratorio specifico e, nonostante non mi abbia fatto ponti d’oro, non mi ha nemmeno ostacolato. Poi negli anni siamo cresciuti. Siamo stati il secondo centro in Italia a fare la Peg per la nutrizione, tra i primi a fare la ventilazione non invasiva».
Avete fatto da apripista, si può dire. Ci ha sempre creduto?
«Spesso mi viene detto che “butto il cuore aldilà dell’ostacolo”. Credo che se le cose non le fai, non si faranno mai. Il nostro è un Paese fortemente conservatore, è tutto difficile, poi Torino è tendenzialmente molto sabauda. Ogni tanto bisogna un pò forzare la mano, sempre nel rispetto del regole, ovvio. Io sono un neurologo, non mi occupo solo di Sla. La mia divisione fa di tutto, curiamo pazienti con varie patologie, chiaro che la Sla è il mio cuore».
Non ha mai pensato di lasciare l’Italia?
«Ho fatto dei colloqui per andare negli Stati Uniti, ma alla fine ho voluto puntare sull’Italia. Mi piace il mio lavoro, parlare con i miei pazienti, che sono innanzitutto persone, prendermi cura di loro, instaurare un rapporto di fiducia».
Il Covid ha aumentato la percentuale di malati con patologie neurologiche?
«Il virus ha peggiorato tutte le patologie, non solo quelle neurologiche. Riuscire a stabilire un rapporto di causa-effetto nei pazienti che hanno contratto il virus è estremamente difficile, però ci sono dei dati che stanno crescendo, oltre che studi internazionali molto interessanti. Allo stato attuale la scienza sta producendo dati sul post Covid e li sta elaborando».
La pandemia ha fatto riflettere sul drastico taglio che ha subito la Sanità italiana. Lei che appello rivolgerebbe al governo oggi?
«In Italia abbiamo, credo, un 7% del prodotto interno lordo per la Sanità, gli Stati Uniti hanno il 12 per cento. Da noi è sotto finanziata, e talora, finanziata pure male. E non è solo colpa del governo ma anche delle regioni. Non possiamo andare avanti con il numero di taglio letti come è accaduto finora. Ci troviamo a fare i salti mortali per ricoverare i pazienti. Il personale non c’è o scappa, gli infermieri mancano. Servono finanziamenti per renderla più efficiente».


Curriculum
Il professor Adriano Chiò ha iniziato a seguire pazienti affetti da Sla e malattie del motoneurone nel 1988, aprendo in Italia il primo ambulatorio dedicato dentro un ospedale universitario pubblico (Molinette). Da allora ha costruito una rete di assistenza multidisciplinare e nel 2009 il centro Sla è stato riconosciuto dalla Regione Piemonte come Centro Esperto Regionale di riferimento per la Sla e, nel 2000, ha istituito anche un servizio di assistenza domiciliare per i pazienti affetti da questa patologia. Alla fine degli anni Novanta, invece, ha creato un servizio di supporto psicologico e, nel, 2009 ha promosso la prima collaborazione italiana con le unità di cure palliative attraverso uno specifico protocollo di cura negli stadi avanzati della malattia.